L’intera organizzazione della vita è costretta a cambiare. Come comportarsi con i piccoli pazienti? È bene dire loro la verità? Rispondono Marina Bertolotti e Eleonora Basso
I tumori maligni in età pediatrica costituiscono un evento raro, con un’incidenza 100 volte inferiore a quella della popolazione adulta. Rappresentano comunque, dopo gli incidenti (traumi e avvelenamenti, 30 per cento), la terza causa di morte di bambini e ragazzi (23 per cento), preceduta di pochissimo dall’insieme delle malattie dei sistemi circolatorio, nervoso, respiratorio e digerente (24 per cento). L’età di insorgenza di un tumore in circa un terzo dei casi è compresa nei primi anni di vita e in genere si tratta di forme aggressive, sensibili alla chemioterapia (tollerata a dosi superiori rispetto all’adulto) e/o alla radioterapia. I protocolli di trattamento tendono ad essere intensi e di breve durata, richiedono il posizionamento di un catetere venoso centrale, comportano periodi di ospedalizzazione, talvolta di isolamento. Ma la prognosi è significativamente migliorata negli ultimi anni: attualmente tutti i tumori pediatrici sono curabili, con guarigione superiore al 75 per cento negli ultimi dieci anni (78 per cento per le neoplasie infantili, 82 per quelle adolescenziali).
A fronte dell’elevata probabilità di successo terapeutico, la qualità di vita dei giovani pazienti sia durante i trattamenti che nel futuro (garantendo loro i minori effetti collaterali tardivi) è diventata, accanto alla guarigione, lo scopo prioritario del trattamento oncologico. Ciò premesso, è ovvio che l’insorgenza di una malattia tumorale nel bambino e nell’adolescente rappresenta un momento di profonda crisi per tutta la famiglia provocando, accanto alle inevitabili angosce legate al percorso e agli esiti delle cure, sentimenti di confusione, rabbia, incertezza, impotenza, solitudine.
L’intera organizzazione della vita è costretta a cambiare. I bambini e gli adolescenti, però, hanno bisogno – per garantire loro il mantenimento di una crescita il più possibile “normale” – di continuità. L’iter terapeutico prevede frequenti periodi di ospedalizzazione e/o di isolamento, attenzioni di tipo igienico e alimentare. In questo contesto è importante per il paziente poter mantenere per quanto possibile ciò che faceva parte della sua quotidianità: la scuola ospedaliera, per esempio, rappresenta un’importante risorsa non solo per evitare la perdita di anni scolastici, ma anche per garantire costanza nell’apprendimento e in un’attività che è centrale in età evolutiva. L’equipe medica che ha in carico il paziente preciserà i periodi in cui la frequenza scolastica è possibile o è più opportuno affidarsi alla scuola domiciliare o a quella ospedaliera.
Altrettanto importante è (pur con le dovute attenzioni al momento particolarmente delicato e di sofferenza che il bambino/adolescente sta passando), mantenere i limiti e le regole che fanno parte del sistema educativo della famiglia: solo il loro mantenimento, infatti, può favorire una crescita fisiologica, evitando di far sentire l’individuo «talmente malato che qualsiasi cosa gli viene concessa», e limitando la possibilità che diventi un adulto con difficoltà di adattamento sociale e scarso equilibrio emotivo. Le relazioni sociali (familiari ed extra-familiari) vanno sostenute e incoraggiate in rapporto alle esigenze reali ed emotive del bambino/ragazzo, nel rispetto dei suoi vissuti e del suo autentico desiderio del momento, oltre che della sua «possibilità emotiva» ad incontrare persone e situazioni significative. È prioritaria anche l’attenzione ai fratelli che spesso, in queste situazioni, soffrono sia per il fratello malato sia per i sentimenti di esclusione che possono sorgere quando diventa improvvisamente necessario per i genitori accudire maggiormente il figlio malato.
Gli atteggiamenti più opportuni, una buona qualità della comunicazione e della relazione vengono facilitati e sostenuti solo da un rapporto sincero, aperto e disponibile alla verità: non ingannare il bambino e l’adolescente sulla diagnosi e sulle procedure rappresenta la base per un rapporto di fiducia e di collaborazione con l’adulto, genitore o medico che sia. Aprire da subito una strada alla verità, nel rispetto dei tempi e dell’età di ogni singolo individuo, consente a ciascuno di avvicinarsi, se lo desidera gradualmente, alla realtà della sua situazione di malattia. I bambini infatti molto precocemente diventano consapevoli che qualcosa di «brutto» sta loro accadendo: mentire non li protegge (pensiero molto diffuso sino a pochi anni fa), ma li costringe al silenzio e alla solitudine, mentre hanno bisogno di ascolto e «accoglienza».
Naturalmente tutto questo non è semplice e spesso anche i genitori a cui tanto viene chiesto durante questa dolorosa esperienza, si sentono incerti, disorientati, soli. Proprio per questa ragione è importante che possano trovare ascolto e risposte ai loro dubbi presso il Centro di cura di loro figlio, consultando pediatri e psicologi in grado di accogliere e condividere le loro ansie e preoccupazioni.
Marina Bertolotti Psicologa, psicoterapeuta, responsabile Psiconcologia Pediatrica all’Ospedale Infantile Regina Margherita-Sant’Anna di Torino, è anche membro del Consiglio direttivo della Società italiana di psico-oncologia del board psico-sociale dell’Associazione di oncoematologia pediatrica, coordina il Comitato intersocietario Sipo-Aiaop, è autrice di oltre 90 pubblicazioni sull’argomento, docente di Psicologia Clinica e Psicologia Generale presso vari Corsi di Laurea dell’Università di Torino
Eleonora Basso Pediatra, dirigente medico del Dipartimento di Onco-Ematologia all’Ospedale Infantile Regina Margherita- Sant’Anna di Torino, è referente per la struttura dei tumori rari in età pediatrica