In questo numero di Peter Pan le Stelle ci sono davvero, non sono solo di carta e hanno un nome: Silvio e Maila.
Sono i protagonisti di questi due piccoli libri scritti dal nonno e il papà di Silvio – “Nella luce – una testimonianza di fede a tre voci” di Mauro e Italo Zancan -, e dal papà e la mamma di Maila, – “La mia ira” – tutti guardiamo dall’alto in basso e tutti siamo soggetti al tempo. Il tempo…porterà le giuste meditazioni” di Ferruccio Alberto Ferrigno e Kelia Decandia – Davide Zedda Editore -entrambi ospiti, in passato, della Casa di Peter Pan.
Immaginate quale emozione sfogliare e leggere le pagine di vita vissuta di queste famiglie…!
Due famiglie con la stessa difficile esperienza da affrontare, ma in conclusione, con destini diversi. Destini diversi che però queste persone hanno sentito di dover esprimere, testimoniare, quasi gridare.
Si è sentito forte il bisogno di lasciare un segno di ciò che la vita può riservarci, del come si possa reagire e affrontare tale esperienza, sul come in alcuni giorni si riesca solo a sopravvivere ed in altri ci si possa esaltare per una briciola di speranza.
Il grido della sofferenza e il sussurro di uno stato di pace raggiunta per fede o per sano ottimismo.
Questi due piccoli testi, che peraltro hanno aiutato concretamente l’Associazione, poiché tutto il ricavato del venduto è stato devoluto a Peter Pan, ci danno l’occasione per valutare meglio ed interrogarci sul cosa vuol dire soffrire e dare un senso a quella sofferenza.
Viene da chiedersi, anzi no, leggendo i libri, viene da rispondersi: “tutto questo ha certamente un suo perché”.
Chi è solo “spettatore”, in questo caso “lettore”, non può far altro che arrendersi a questa risposta di fronte a tanta disperazione, fatica, smarrimento e senso di impotenza.
Ma sono gli autori stessi, che vivono la realtà e paradossalmente ci suggeriscono questo.
Il dolore che attraversa ogni sillaba, ogni lettera, ogni riga di questi racconti, è quasi tangibile, ma è altrettanto palpabile che la ragione può prevalere su quel senso di follia, che ti sfiora, quando rivolgi il pensiero ad una malattia irreversibile o ad una fine certa, di un proprio caro, di tuo figlio.
Nella nostra cultura non siamo educati ad affrontare la malattia come un qualcosa con cui forse è possibile convivere, ma come una cosa indubbiamente da combattere. E se questo inizialmente è giusto e sacrosanto, poichè ci deve dare il giusto slancio verso una battaglia che va senz’altro combattuta a favore della vita, forse arriva un momento in cui è anche necessario prendere coscienza che occorre cogliere ciò che ci è concesso raccogliere in questo tempo che ci è stato affidato. Da Dio? Dal destino? Potremmo dare mille risposte, concepire infinite supposizioni o rimanere completamente muti, di fronte ad una domanda così straordinariamente misteriosa e grandiosa…
I nostri amici sembrano suggerirci, sommessamente, quasi sotto voce ma con grande chiarezza che è opportuno fare ancor di più: è necessario, quasi doveroso, raccogliere il meglio anche nella peggiore delle circostanze. Scorrendo le pagine di questi libri, nonostante le diverse vicissitudini, mi sono resa conto che loro hanno saputo farlo.
Tutto diviene prezioso e unico. Tutto diviene insegnamento. Si relativizzano tante realtà che consideriamo imprescindibili, si sospendono rancori e polemiche sterili, si demoliscono illusioni.
Il nostro Tutto può divenire un Nulla in un attimo, ma quel tutto deve lasciarci un segno e deve essere semenza per la nostra anima, per quello che siamo e che dovremo diventare, per il nostro futuro e quello di chi circonda.
In queste pagine si coglie quello che all’apparenza può sembrare un concetto paradossale, ovvero il del “perdere per trovare”, del donare per avere. E questo mi fa ricordare una parabola ebraica che ho letto diversi anni fa e che mi sono trascritta perché l’ho subito trovata…illuminante:
“In una stanza silenziosa c’erano quattro candele accese. La prima si lamentava: “Io sono la pace. Ma gli uomini preferiscono la guerra: non mi resta che lasciarmi spegnere”. E così accadde. La seconda disse: “Io sono la fede. Ma gli uomini preferiscono le favole: non mi resta che lasciarmi spegnere”. E così accadde. La terza candela confessò: “Io sono l’amore. Ma gli uomini sono cattivi e incapaci di amare: non mi resta che lasciarmi spegnere”. All’improvviso nella stanza comparve un bambino che, piangendo disse: “Io ho paura del buio”. Allora la quarta candela disse: “Non piangere. Io resterò accesa e ti permetterò di riaccendere con la mia luce le altre candele: io sono la speranza”
Silvio, Maila e i loro cari attraverso queste preziose pagine ci ribadiscono proprio questo: “non permettiamo a nulla e a nessuno, neppure alla malattia o alla morte di spegnere quelle luci meravigliose che sono in ognuno di noi, anzi, alimentiamole con la speranza perché, in ogni momento della nostra vita ci aiuteranno a sopravvivere e a non avere paura nel buio della disperazione”