Mia madre, la mia bambina

Tahar Ben Jelloun è un noto scrittore e poeta marocchino (con il best seller “Il razzismo spiegato a mia figlia” l’ONU gli ha conferito, nel 1988, il Global Tolerance Award) che ha affrontato in questa sua ultima opera, il tema delicato e doloroso di una malattia devastante e sempre più dilagante: il morbo di Alzheimer.
Questa patologia colpisce la memoria e le funzioni mentali, il pensare, il parlare, ma può causare altri problemi come confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. Tra il 50 e il 70% delle persone affette da demenza soffrono di malattia di Alzheimer – un processo degenerativo che distrugge lentamente e progressivamente le cellule del cervello. Può essere considerata a tutti gli effetti una malattia terminale, che causa un deterioramento generale delle condizioni di salute.
Tahar Ben Jelloun non è più giovanissimo (nato nel 1944 a Fès, in Marocco) e questo contribuisce in maniera determinante a rendere il suo racconto, del legame d’amore madre/figlio, così commovente, speciale, delicato, toccante e appassionante. Forse solo un Uomo, con la maturità e l’esperienza degli anni, riesce a cogliere quelle sensazioni e situazioni ai limiti della sopportazione umana, che spesso la malattia impone, trasformandole in veri e propri atti d’amore e dimostrazioni di vicendevole donazione.
E’ un amore straordinario, quello narrato da Tahar, in questa cronaca di vita interiore dove sono impresse tutte le emozioni che prova il figlio per l’inconsistente dissolvenza materna. Così amorevolmente impotente, questo figlio, davanti alla madre in passato così forte e determinata ed oggi irrimediabilmente assente.
Con un racconto semplice questo autore esprime una profondità di sentimenti e stati d’animo basati sull’assoluta comprensione della madre, nonostante soffra per la mancanza di complicità attiva; un tipo di relazione, questa, che deve necessariamente instaurarsi tra un malato, che richiede illimitata disponibilità senza poter offrire altro che parole non dette; proprio come un neonato in balia dell’amore dei genitori.
Ma non è soltanto la parte relazionale madre/figlio, che colpisce e afferra tutta l’attenzione del lettore, ma anche la cura e l’attenzione che pone descrivendo il mondo in cui questa relazione è nata e vissuta; il mondo arabo.
Un mondo in cui i figli sono animati da un profondo rispetto verso i genitori e che cercano di preservare ricordi e tradizioni come tributo verso una benedizione del genitore, elargita alla fine della propria vita.
Questo libro è anche un’occasione di riflessione di tipo sociale: il rapporto tra il mondo arabo, con le sue attenzioni legate alle tradizioni e alla famiglia e il nostro occidente, fatto di materialismo in cui “il legame diventa misero e dettato da leggi più legate al denaro e ai beni” e i nostri anziani spesso lasciati e abbandonati nelle cliniche per lungodegenti, sopportati e allontanati.
Non è assolutamente un testo triste, è anzi un bel viaggio in un tempo e in luoghi lontani ma hanno un unico comune denominatore; l’amore per la vita, l’amore come unico strumento di sopravvivenza, anche oltre la vita stessa, attraverso il ricordo.

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