I laboratori di tutto il mondo sono al lavoro per rendere sempre più precise le tecniche di imaging che permettano di scovare ovunque le cellule cancerose. I quattro principali istituti di ricerca e cura dei tumori lombardi sono in campo con uno straordinario progetto unitario finanziato dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc) e voluto da Umberto Veronesi che ha come obiettivo l’esplorazione delle potenzialitĆ delle tecniche di imaging unite alle più avanzate conoscenze genetiche, molecolari, farmacologiche e tecnologiche.
Sulle tracce del Dna.
Strumento raffinatissimo per osservare l’attivitĆ di un tumore ĆØ la Pet, che consente di studiare il metabolismo delle cellule misurando quanto esse utilizzano uno zucchero, cioĆØ quanta energia consumano per crescere e proliferare. Ma non sempre lo zucchero ĆØ un buon marcatore, e Emilio Bombardieri, direttore della Struttura di Medicina nucleare dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ĆØ partito dal presupposto che anche il materiale genetico coinvolto nella proliferazionesi possa dare informazioni, e ha cercato di fabbricare del Dna radioattivo. “Analizzando dove e in che misura ĆØ stato captato, si può avere un’idea precisa del tipo di attivitĆ cellulare in corso e quindi della presenza di un tumore attivo”, spiega Bombardieri. E si può capire anche se una terapia sta funzionando o meno. Entro fine anno dovrebbe iniziare uno studio pilota su una quindicina di donne con tumore al seno che devono sottoporsi a 5-6 cicli di chemioterapia per ridurre la massa prima di essere operate. L’idea ĆØ quella di controllare se la cura funziona, in modo da decidere se continuare la chemioterapia o interromperla per seguire altre strade.
A caccia di ossigeno.
Usa la Pet anche il lavoro in corso al San Raffaele. Spiega Maria Picchio, ricercatrice e group leader dell’UnitĆ di ricerca: “Quando un tumore ĆØ in crescita al suo interno si formano zone con pochissimo ossigeno. Maggiore ĆØ l’ipossia più grave ĆØ la situazione e maggiori i rischi che il malato diventi presto resistente a chemio e radioterapia. Per questo stiamo cercando di mettere a punto un tipo di Pet che serva a quantificare specificamente l’ipossia”. Ecco allora che entra in scena un altro marcatore della Pet, una sostanza chiamata Faza che sembra avere caratteristiche ottimali. I primi dati ottenuti negli animali hanno avuto esito positivo.
Proteine radioattive.
I ricercatori del gruppo guidato da Giovanni Paganelli allo Ieo da anni stanno lavorando su tumori molto particolari: quelli neuroendocrini. Spiega Paganelli: “Questi tumori (in Italia se ne diagnosticano 2-3.000 all’anno), insorgono in molte zone dell’apparato digerente, nei polmoni e in altri tessuti; finora era molto difficile diagnosticarli perchĆ© si formano in più punti contemporaneamente, ma noi abbiamo dimostrato che se si usa la Pet con un tracciante marcato con Gallio 68 ĆØ possibile visualizzare molto bene la malattia e progettare quindi terapie più mirate”.
Ma non ĆØ tutto: la Pet classica non ĆØ utilizzata per la diagnosi di questi tumori perchĆ© solo un malato su due capta il glucosio e per gli altri il test ĆØ inutile. Paganelli e il suo gruppo hanno scoperto che il tumore che capta il glucosio ĆØ più maligno, risponde meno alla chemioterapia e va trattato in modo più aggressivo. E, spiega: “Abbiamo capito che coloro che hanno una malattia più aggressiva rispondono bene a una cura con peptidi marcati un altro isotopo, il lutezio 177, e abbiamo giĆ trattato diversi pazienti, con risultati eccellenti, ancorchĆ© preliminari”.
Una mano alla difesa.
L’Istituto Humanitas usa l’imaging per studiare le relazioni che si instaurano tra cellule tumorali e sistema immunitario. Spiega Antonella Viola, coordinatrice del progetto: “I sistemi di imaging avanzato permettono oggi di osservare dal vivo ciò che un tempo era inosservabile, e di capire quindi molto meglio come ĆØ possibile intervenire quando un network biologico ĆØ alterato. In particolare, noi abbiamo scoperto che le cellule tumorali riescono a tenere lontani i linfociti T che si attivano per distruggerle modificando il microambiente che le circonda. E abbiamo identificato un farmaco sperimentale che sembra ripristinare le condizioni normali”.
Fonte: espresso.repubblica.it – 01 novembre 2011