MILANO – Racconta un medico ospedaliero, sul sito inglese di un associazione di malati di cancro.
«Io come medico sopportavo con fastidio il fatto che i miei pazienti chiedessero un secondo parere
sulla mia diagnosi. Mi sembrava che non si fidassero di me. «Poi mi è stato diagnosticato un piccolo
tumore del colon. Altro che secondo parere: di pareri ne ho chiesti sei o sette prima di decidermi a
intervenire». Il medico che deve curare se stesso dà sempre grandi lezioni. E scopre quello che appare
evidente alla maggior parte dei pazienti. Che di fronte alla diagnosi di una malattia grave nasce il bisogno di una conferma, di un confronto che sia anche conforto. «Il momento della comunicazione della diagnosi di una malattia severa è molto delicato — dice un medico di grande esperienza, Pasquale Spinelli, una carriera come gastroenterologo all’Istituto dei tumori di Milano —. È importante che in quel momento il professionista sappia dare consigli sul da farsi, sulle diverse opzioni, sulle possibilità. Ed è giusto non solo accettare ma anche consigliare un secondo parere, guidare il paziente anche in questo». Troppo spesso invece la realtà mostra un altro quadro. Quello del neomalato in ansia, con la cartella clinica sotto il braccio, ottenuta spesso a fatica, che inizia il giro delle sette chiese e delle altrettante speranze. Lo guida, nella maggior parte dei casi, il passaparola, l’amico dell’amico, il sentito dire. Oppure, oggi sempre più frequentemente, procede lungo le strade insidiose di Internet. In ogni caso al caro prezzo degli onorari che si moltiplicano.
LUSSO O DIRITTO ? – Ci si chiede: il secondo parere è un lusso o è un diritto del malato? Secondo molti è uno spreco di risorse, che crea confusione e rischia di screditare il valore del “primo parere”. Secondo altri, oltre che una comprensibile necessità psicologica, è un diritto che il medico ha il dovere di rispettare almeno per le patologie importanti. La medicina più avanzata, a livello internazionale, prop e decisamente per questa seconda tesi. Nei Paesi anglosassoni, in Francia e nella maggior parte dei Paesi europei la “second opinion” è una pratica comune, naturale, che non scandalizza nessuno. Nel sistema sanitario americano, basato sulle assicurazioni private, in molti casi è addirittura obbligatoria, tutti i principali centri di eccellenza forniscono questo servizio in varie specialità e le linee guida delle associazioni mediche lo raccomandano. Anche perché le ricerche condotte in questo campo hanno dimostrato l’efficacia dei consulti, che permettono di “correggere” un numero significativo di diagnosi, evitando anche molti interventi inutili. E quindi risparmiando anche denaro. Per esempio la British medical association impone di rispettare la richiesta del paziente di un altro parere e raccomanda di fornire le indicazioni utili e tutti i dati clinici in possesso. I medici si adeguano volentieri, anche perché sono più protetti da eventuali rivalse legali.
IN ITALIA – Ma in Italia il Servizio sanitario ignora il “secondo parere”: le strutture pubbliche non forniscono questo servizio e la maggior parte dei medici si dimostra comunque poco disponibile ad aiutare il paziente. E non è previsto alcun rimborso. Il diritto alla “second opinion” compare solo nella carta dei diritti del malato, proposta da Umberto Veronesi. «La situazione italiana è molto arretrata in questo campo. Chi non ha la capacità o la possibilità di gestirsi in proprio il “secondo parere” non è protetto dal sistema», afferma deciso Sandro Mattioli, specialista di chirurgia generale all’università di Bologna. Con Luigi Bolondi, ordinario di clinica medica, sta organizzando per il prossimo 11 febbraio un convegno dal titolo “Mobilità sanitaria e second opinion”, per conto della Società medico chirurgica della città. «Direi anzi che la situazione va peggiorando — prosegue Mattioli — . Una volta c’era l’illustre clinico, il “barone”, che non aveva difficoltà a spedire i pazienti per un consulto, con il viatico di un “Dì che ti mando io”. Questo sistema paternalistico è giustamente finito, ma non è stato sostituito da qualcos’altro. Nella sanità italiana c’è anzi una sorta di sindrome del “maso chiuso”: ciascuno cerca di tenersi stretti i propri pazienti, anche per motivi economici». Ma i pazienti “viaggiano” lo stesso, anche non invitati. «Lo stato dice: devi andare nella tua Asl di competenza, altrimenti sono fatti tuoi. E così il paziente si arrangia. Mentre dovrebbe favorire un sistema di consulti tra gli specialisti, per quel che riguarda la clinica medica. E fornire una “second opinion” concreta per quel che riguarda la chirurgia, basata su una rete di centri specialistici e di riferimento per le varie patologie, distribuiti sul territorio. Anche perché in chirurgia non conta soltanto la competenza del singolo medico, ma quella dell’intera squadra». «Il servizio sanitario deve farsi carico del secondo parere — ribadisce Spinelli — perché fa parte integrante dell’assistenza al malato. Per evitare dispersioni di energie e denaro. E prevenire anche che il paziente, nella sua ricerca a volte disperata, finisca per affidarsi a “guaritori” di vario tipo, che promettono soluzioni miracolistiche».
Riccardo Renzi