di Valentina Arcovio
Per la prima volta un bambino di 4 anni malato di leucemia linfoblastica acuta è stato trattato con una rivoluzionaria terapia genica tutta made in Italy.
E oggi, a distanza di un mese, nel suo midollo non c’è più traccia della malattia. Anche se bisognerà aspettare almeno un anno prima di sapere capire se il trattamento è stato risolutivo. «Dopo 3 anni di trattamenti falliti, speriamo che nostro figlio possa finalmente avere una vita normale», si augura la mamma del piccolo paziente.
A regalare questa nuova chance di vita sono stati i medici dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, con il sostegno dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, il ministero della Salute e la Regione Lazio. La tecnica con cui è stato trattato si chiama CAR-T e consiste nel manipolare geneticamente le cellule del sistema immunitario per renderle in grado di riconoscere e attaccare il tumore.
LA TECNICA
I linfociti del piccolo paziente sono stati dunque manipolati e reindirizzati contro il bersaglio tumorale: i medici hanno prelevato i linfociti T del bimbo e li hanno modificati geneticamente attraverso un recettore chimerico sintetizzato in laboratorio.
Questo recettore, chiamato appunto CAR (Chimeric Antigenic Receptor), potenzia i linfociti e insegna loro, una volta reinfusi nel paziente, di riconoscere e attaccare le cellule tumorali presenti nel sangue e nel midollo, fino ad eliminarle completamente. Ma la svolta davvero innovativa, che rende questa terapia tutta italiana davvero unica, è l’inserimento di un gene suicida. Si chiama Caspasi 9 (iC9) e si attiva solo in caso di eventi avversi, in quanto capace di bloccare l’azione dei linfociti modificati.
«L’approccio adottato dai colleghi del Bambino Gesù – commenta il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’Università Tor Vergata di Roma – è importante perché migliora la metodica originale, rendendola più efficace». Perché in effetti la terapia genica CAR-T è stata sperimentata per la prima volta nel 2012, negli Usa, su una bambina di 7 anni: a 5 anni dall’infusione, la leucemia non si è ripresentata e la piccola può considerarsi guarita. Sono quindi partite numerose sperimentazioni e l’agenzia statunitense responsabile dei farmaci, la FDA, ha approvato il primo farmaco a base di CAR-T sviluppato dall’industria farmaceutica.
LA SPERIMENTAZIONE
Un simile approccio è stato già testato con successo qualche anno fa anche nel nostro paese, come riporta il New England Journal of Medicine. Precisamente nel 2016 all’ospedale San Gerardo di Monza, in un trial con un farmaco prodotto dalla multinazionale Novartis.
La sperimentazione dell’ospedale pediatrico romano è quindi l’unica tutta made in Italy. Italiano è lo studio, così come lo è il processo di manipolazione genetica e addirittura anche la preparazione del farmaco biologico, avvenuta interamente nella Officina Farmaceutica del Bambino Gesù. Non stupisce quindi l’entusiasmo con cui è stato accolto l’annuncio dei medici del Bambin Gesù. Si definisce «orgoglioso» il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Mentre il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha parlato di «un grandissimo successo per la nostra ricerca, frutto di tre anni di lavoro».
Ma non è che l’inizio. Ora altri piccoli pazienti aspettano di ricevere la stessa terapia. Già ieri un adolescente affetto dalla stessa forma di leucemia del bimbo di 4 anni è stato trattato con la CAR-T. Inoltre, è in corso la preparazione di CAR-T anche per una bambina affetta da neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica. L’infusione dovrebbe avvenire tra una decina di giorni.
Se questa terapia si rivelerà risolutiva, avremo un’arma eccezionale contro i tumori infantili. Anche se probabilmente molto costosa. «Tutto questo procedimento è efficace, ma molto costoso», conferma Pier Giuseppe Pelicci, direttore dell’Unità di analisi dei meccanismi molecolari del cancro e dell’invecchiamento dell’Istituto europeo di oncologia. «Dunque la raccomandazione di noi scienziati è che si investa in questa straordinaria terapia che ha dimostrato di essere efficace, per renderla anche accessibile ai sistemi sanitari e al maggior numero possibile di pazienti», conclude.
ilmessaggero.it 2.2.18
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