Viaggio nel reparto di oncologia pediatrica degli Ospedali Riuniti

BERGAMO –  Ha 15 anni ed è malato di leucemia. E’ uno shock per la sua famiglia che non sa come dirglielo, non vuole, teme un crollo psicologico. Per i medici dell’Oncologia pediatrica degli Ospedali Riuniti di Bergamo è meglio dirglielo, la verità spiegata coi giusti modi è il primo passo per affrontare le cure, sostengono la famiglia in questo momento delicato e il risvolto è sorpr ente. «Finalmente si parla della mia leucemia» risponde il giovane paziente, che lascia di stucco tutti, confermando quello che già i medici sanno, cioè che i bambini e i ragazzi hanno una capacità di affrontare la malattia e di riprendersi superiore agli adulti. Sono 50 i nuovi casi che ogni anno arrivano ai Riuniti, diverse le età, dai piccolissimi agli adolescenti, sono pazienti affetti da diverse forme tumorali, dalla leucemia ai cosiddetti tumori solidi, come quello di Wilms, renale. L’ospedale della città è all’avanguardia, anche in materia di trapianti di fegato. I risultati lo confermano. Tre pazienti su quattro guariscono e per guariti s’intende che per cinque anni dopo la comparsa del tumore non c’è più nulla, regredito definitivamente. «I bambini sono pazienti speciali che vengono presi in carico da tutti i punti di vista – spiega il primario della Pediatria Valentino Conter -. Abbiamo una psicologa, l’assistente sociale, ci sono gli Amici della pediatria, il personale stesso segue continui corsi di aggiornamento, poi c’è la ricerca. Bergamo non è seconda a nessuno». Anzi. Il livello di eccellenza è garantito dal Sistema sanitario nazionale, ma perchè in un reparto particolare come l’Oncologia pediatrica, con pazienti così speciali, ci sia quel quid in più, serve un valore aggiunto che si chiama ricerca continua, dialogo e assistenza alle famiglie. Per questo motivo sono preziose altre fonti di entrata, oltre a quelle della sanità in senso stretto. Come il ricavato del calendario 2011 di Miss Bagaglino che, idem lo scorso anno, verrà devoluto completamente all’Oncologia pediatrica. «Iniziative come questa sono molto utili, sia per ricevere risorse aggiuntive preziose, sia per sensibilizzare il territorio rispetto ai servivi di alto livello che qui vengono garantiti. In questo reparto è necessario dedicare più tempo ai pazienti, serve avere il dialogo con loro e con le famiglie – prosegue il primario -. Ci sono pazienti con disagi socio-economici, genitori che affrontano l’impegno di viaggi e permanenze a Bergamo. C’è poi la partecipazione ai progetti di ricerca che richiede risorse e, al tempo stesso, garantisce uno stimolo a mantenere alti livelli di qualità». Poi c’è lui, il dottore speciale, che nell’Oncologia vive la grande soddisfazione delle guarigioni, ma anche il pesante impatto di quel 25 per cento di casi che non finisce bene. «Non ci si abitua mai – dice il dottor Massimo Provenzi, responsabile della divisione di emato-oncologia pediatrica dei Riuniti -. Da noi arrivano pazienti soprattutto dalla Bergamasca, ma anche da fuori provincia per patologie specifiche come i tumori epatici, che vengono gestiti insieme col centro trapianti di fegato. Per i linfomi, inoltre, siamo un punto di riferimento a livello nazionale». Età o stile di vita non fanno la differenza. Per il corridoio del reparto passeggia una mamma, in braccio ha un fagottino di pochi mesi che vive attaccato ad una flebo. Lo culla, la donna ha lo sguardo stanco di chi è appeso ad una speranza. «Arrivano pazienti di tutte le età, con diversi tipi di tumori – continua Provenzi -. Mentre nell’adulto ci sono fattori precisi di rischio, come il fumo e lo stile di vita, per i bambini non c’è nulla che si possa mettere in relazione col tumore». Per tutti, o meglio dai cinque anni in poi, la scelta segue una stessa strada. Spiegarlo, parlarne. «La comunicazione col bambino e con la famiglia è fondamentale. Ma anche quella è diversa qui rispetto agli altri reparti – spiega il medico -. Spesso i genitori evitano di parlarne col figlio, perchè credono di proteggerlo. In realtà lui capisce dai comportamenti e dal non detto, e tutto questo alla fine rischia di essere controproducente. Il piccolo paziente crede di avere qualcosa di così grave che nemmeno lo si può nominare». Il percorso non è privo di ostacoli. La meta finale è la guarigione, le tappe intermedie si chiamano anche scuola, disegni, play station nelle camerette, ognuna personalizzata con i 12 posti letto in totale. Si chiamano normalità. «Cerchiamo di riprodurla in ospedale – dice Provenzi -. La scuola, per esempio, dalle elementari alle superiori, è un segno di vita futura, fa percepire al bambino che la sua condizione è solo momentanea. Dopo la guarigione fisica c’è anche quella psicologica, perchè i piccoli pazienti non si sentano ex leucemici per tutta la vita».

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